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Arnaldo Sassi
caporedattore Messaggero |
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- Per favore, ridateci i politici di una volta. Ma sì, quei politici forse un po’ ingessati, dal linguaggio sicuramente ermetico e molto poco diretto, ma che alla fine sapevano essere uomini di Stato.
Ridateci gli Aldo Moro, i Benigno Zaccagnini, i Giovanni Malagodi, i Giuseppe Saragat, i Pietro Nenni, gli Enrico Berlinguer, gli Alfredo Covelli e i Giorgio Almirante, esponenti di un’Italia che – ridotta allo stremo dalla disgraziatissima avventura nella seconda guerra mondiale – fu capace di rialzare la testa, di crescere, e soprattutto di spalmare il benessere a tutti gli strati sociali della sua popolazione.
Gente che aveva certamente opinioni molto diverse, discuteva anche animatamente, si scontrava quando era necessario, ma non andava mai sopra le righe. E soprattutto aveva profondo rispetto per gli avversari politici e un forte senso del bene comune, che poi era il senso dello Stato.
La considerazione m’è venuta in mente assistendo al dibattito politico di questi giorni.
Sull’Alitalia, sulla scuola, sui fannulloni, sulla crisi economica, e chi più ne ha, più ne metta. Un dibattito nel quale spesso al ragionamento s’è sostituito l’insulto. Ormai, in televisione e sui giornali, i politici italiani del ventunesimo secolo fanno a gara a chi le spara più grosse: si va dall’imbecille, al coglione, allo stupido. E si divide l’Italia in due, come ai tempi dei guelfi e ghibellini.
In un periodo in cui invece, stante soprattutto la crisi economica che attanaglia il Paese e colpisce gran parte della popolazione, sarebbe necessario uno sforzo comune per uscire dalle secche di una situazione che per molti rischia di essere drammatica.
Il problema, a mio avviso, è anche culturale. Mentre una volta si parlava al cervello delle persone, oggi si preferisce parlare alla loro pancia. Ed ecco che, piano piano, sono venuti meno quei valori che sembravano ormai acquisiti per sempre (ovverosia una visione solidaristica della società), i quali sono stati sostituiti da altri (mors tua, vita mea, dicevano i latini), certamente di maggiore impatto.
Ecco dunque che – scomparse o quasi le ideologie di una volta – oggi si punta a una visione lobbistica dello Stato, in cui gli interessi di una classe sociale (o territoriale) vengono difesi da questo o quel partito, spesso in maniera strumentale o propagandistica, con l’occhio sempre rivolto ai sondaggi d’opinione. Ma così facendo si risolvono solo i problemi di uno schieramento e non quelli della gente.
Un esempio su tutti, la vicenda Alitalia. Nella quale le responsabilità sono sicuramente molteplici e riguardano addirittura più generazioni di una classe dirigente che s’è dimostrata incapace e forse qualcosa in più. Ma sulla quale ha pesato molto la propaganda dell’italianità a tutti i costi, anche se a pagare (e salato) sarà ancora una volta il contribuente.
Ovviamente la Tuscia e Viterbo non potevano rimanere estranei da quella che è sicuramente una visione “guicciardiniana” del potere, in cui “il particulare” finisce sempre per avere la preponderanza su tutto il resto. Così si passa tranquillamente dal confronto al tifo da stadio.
Tifo nel quale gli ultrà non sono soltanto i politici, ma anche quegli organi di stampa che – schierati dall’una o dall’altra parte – devono difendere a tutti i costi gli interessi (politici ed economici) dei propri editori.
E chi scrive (visto che dirige l’edizione locale di un quotidiano nazionale) non vuole assolutamente tirarsi fuori dalla mischia. Anche se fino a oggi ha avuto la fortuna di operare in assenza di particolari mire del proprio editore sul territorio di competenza.
Fatto è che questo modo di gestire la cosa pubblica porta grossi vantaggi per alcuni e altrettanti gravi danni per tutti gli altri.
Sempre a titolo di esempio, si possono citare tre società comunali (il Cev viterbese, la Vetralla servizi del Comune omonimo e la Multiservizi di Tarquinia) che hanno generato debiti a non finire e inchieste.
E’ innegabile affermare – perché sta sotto gli occhi di tutti - che invece di essere una risorsa per gli enti locali e un vantaggio per i cittadini (perché questo era l’incipit col quale furono costituite), si sono rivelate un disastro sotto tutti i punti di vista.
Perché? Semplice. Perché sono state considerate un ottimo viatico per poter aggirare le regole rigide che regolano l’ente pubblico e perché sono state gestite come un serbatoio di voti. Responsabilità politiche queste da cui nessun amministratore può tirarsi fuori. Anche se, more solito, una volta esploso il bubbone, è subito cominciato il classico gioco dello scaricabarile.
Conclusione: l’andazzo è questo e la gente s’è anche abituata a conviverci. E per chi crede in un tipo di società diversa resta solo la nostalgia: ridateci i politici di una volta.
Arnaldo Sassi
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