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Arnaldo Sassi
caporedattore Messaggero |
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- Quando ero bambino e commettevo qualche marachella, mia madre mi rimproverava spesso dicendomi: "Prendi esempio da tuo padre", indicandolo come simbolo di rettitudine da imitare anche per i miei comportamenti nella vita futura.
Mio padre insomma, era per me il buon esempio, come l'altro 99 per cento dei padri lo era per i miei coetanei.
E col buon esempio della famiglia, unito a quello della scuola e anche della parrocchia (all'epoca motivo di svago per gli adolescenti, in quanto si miscelavano sapientemente il catechismo coi tornei di calcio, di ping pong e di bigliardino) si plasmavano le future generazioni. Si insegnavano l'educazione e il rispetto delle regole.
Già, le regole. Quelle che dovrebbero consentire a tutti di vivere in maniera civile all'interno di una società.
Diceva Martin Luther King: "La mia libertà finisce dove comincia la vostra". Ma oggi questa frase chi se la ricorda?
Le buone maniere sono ormai diventate simbolo di debolezza, mentre va molto di moda il “celodurismo”, inteso come decisionismo e pragmatismo a tutta velocità.
Beh, è vero, il mondo corre. E per stargli dietro non si può star lì tanto a cincischiare come si faceva una volta. Ecco dunque che c'è bisogno di un condottiero che guidi le armate.
Dove?
Non importa saperlo, l'importante è correre per non rimanere indietro.
E le regole?
Anche quelle sono diventate un impaccio. Soprattutto per chi gestisce il potere. A tutti i livelli. Perché oggi gestire il potere sta diventando sinonimo di avere le mani libere, e non di amministrare la cosa pubblica secondo regole ben precise, cui soprattutto chi sta in alto ha il dovere, prima degli altri, di uniformarsi.
E' curioso tra l'altro che mentre si inaspriscono le regole comportamentali per i comuni mortali (basti pensare al Codice della strada o, tanto per rimanere nei confini della Tuscia, al “pacchetto educazione” sfornato dalla giunta Marini) nelle alte sfere, soprattutto quelle politiche, si ricorra a trucchetti di bassissima lega per soddisfare il proprio interesse di parte.
Così accade che mentre le Ferrovie licenziano (giustamente) alcuni dipendenti che si facevano timbrare da altri il cartellino di presenza, in Parlamento la moda dei deputati “pianisti” (quelli che votano anche per i colleghi assenti) sia quanto mai in voga.
Ma c'è di più. S'è letto ultimamente su qualche quotidiano che il deputato leghista Matteo Brigandì, di professione avvocato, abbia pianificato sul fenomeno una teoria tutta nuova: "Se i deputati di maggioranza votano per due – sentenzia il nostro - possono farlo per ragioni politiche. Invece quelli di opposizione che attuano questa pratica lo fanno solo per intascare la diaria. E ciò si chiama truffa".
Vabbè.
E il linguaggio? Il primo a dare il cattivo esempio è proprio il presidente del Consiglio: le critiche gli fanno venire l’orticaria e così non esita a definire “ridicoli” sia il leader dell’opposizione che tutto il Partito democratico. Quando poi il vice sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini arriva a dire sulla pubblica piazza che gli islamici “devono andare a pisciare nelle loro moschee” e di non voler vedere “neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini” vuol dire che siamo proprio arrivati alla frutta.
Purtroppo, il morbo del “comando io” perché ho preso i voti e delle regole chi se ne frega s’è diffuso come un’epidemia a tutti i livelli, non risparmiando neanche la Tuscia. Dove ormai si va avanti per lo più con gli insulti o a colpi sotto la cintura per avere a proprio vantaggio la gestione del potere.
I politici fanno la loro parte, ma anche qualche organo di pseudo-informazione non scherza.
Al sindaco viterbese Giulio Marini, che fino a oggi ha avuto la capacità e la forza di non entrare in questo tritacarne, un umile consiglio: perché non delibera un “pacchetto educazione” anche nel modo di esprimersi in pubblico?
Arnaldo Sassi
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