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Severo Bruno
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- Se le notizie avessero un colore, la morte dei nostri soldati in Afghanistan avrebbe il colore cupo del sangue e del dolore, in cui hanno lasciato i loro cari insieme a tutti noi, attoniti per la brutale interruzione di tanti progetti di vita.
Sono morti per una guerra in posti lontani, come strumenti di una strategia a loro non comunicata e tuttavia forti, coraggiosi e professionali.
E' significativo come la morte di quei poveri ragazzi, ci abbia colpito tutti nel profondo, al di là delle distinzioni politiche e delle provenienze, come capita di solito solo per un fatto di famiglia.
E' un'altra prova del senso di appartenenza a questo Paese, della comune origine e cittadinanza, e soprattutto della fratellanza.
Tutti dobbiamo a questi ragazzi la nostra più profonda riconoscenza per come hanno rappresentato l'Italia e, in suo nome, hanno affrontato la morte.
Superando l'emozione, però, si deve trarre dal gravissimo evento luttuoso la necessaria lezione e cioè che è ormai ora per avviare una seria riflessione sulla missione, sulle sue linee tattiche e strategiche, al fine di impedire per quanto possibile che simili tragedie abbiano a ripetersi.
Da qualche parte è stato invocato l'abbandono della missione in Afghanistan, ma ora una simile decisione avrebbe l'effetto di premiare gli aggressori e rendere inutili i sacrifici affrontati.
Piuttosto sembrerebbe opportuno valutare, insieme agli alleati, se la strategia attuale abbia ancora una ragion d'essere visti i modesti risultati ottenuti.
Infatti, se è dubbio che la democrazia possa essere esportata, in ogni caso non sono certamente i bombardamenti, con tutti i danni collaterali “conseguenti”, il mezzo migliore per farlo.
Dopo anni di guerra, la guerriglia dei talebani è più forte di prima e nelle città si muove agevolmente in mezzo alla popolazione, malgrado migliaia di morti militari e civili le donne afghane portano ancora il burqa e restano prigioniere di una società violenta e ingiusta, che le vuole segregate a vita nella gabbia di pretese tradizioni. Forse, per curare simili mali, servirebbero più scuole e insegnanti, piuttosto che bombe.
Per questa opera di pacificazione non c'è che sperare nel nuovo governo e rafforzarlo, non solo nella organizzazione delle forze armate e di polizia, ma soprattutto nella promozione di istruzione e pubblica sanità, settori in cui quello sventurato paese è veramente bisognoso di tutto.
Uno sviluppo della missione in questa direzione, concertata con gli alleati e di lungo respiro, darebbe un senso compiuto anche al sacrificio dei nostri soldati, che erano stati inviati a Kabul in missione di pace.
Come tanti altri militari, anche il caporalmaggiore viterbese Giandomenico Pistonami, ucciso da quella bomba assassina, era già stato dapprima in Kossovo, poi in Libano, sempre inviato in soccorso delle popolazioni distrutte dalla guerra.
In loro ricordo, per continuare la loro missione, adoperiamoci tutti per far tornare la pace anche a Kabul, in quei territori lontani. Il loro nobile sacrificio renderà più autorevole ogni sforzo in questa direzione.
Severo Bruno
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