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L'alambicco di Antoniozzi
L'alambicco di Antoniozzi
E' viva Santa Rosa
di Alfonso Antoniozzi
Viterbo - 1 settembre 2009 - ore 3,30
L'alambicco di Antoniozzi
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di Alfonso Antoniozzi
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L'alambicco di Antoniozzi
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L'alambicco di Antoniozzi
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L'alambicco di Antoniozzi
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L'alambicco di Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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di Alfonso Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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di Alfonso Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
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Viterbo - 2 febbraio 2009 - ore 0,30
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Viterbo - L'alambicco di Antoniozzi
Centrostorico, l'Unione e... l'amianto
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Viterbo - 27 novembre 2008 - ore 0,30

L'alambicco di Antoniozzi
E' viva Santa Rosa
di Alfonso Antoniozzi
Viterbo - 1 settembre 2009 - ore 3,30

Il cantante lirico
Alfonso Antoniozzi
- Ho avuto la fortuna di assistere alle prove di uno spettacolo su Santa Rosa che Chiara Palumbo e Paolo Manganiello hanno allestito, attingendo a piene mani alle fonti agiografiche e alle narrazioni popolari.

Ammetto candidamente che temevo il peggio, malgrado la stima e l’affetto fraterno che mi legano ai due autori/attori viterbesi: paventavo di dover assistere a una sorta di santino scenico non troppo dissimile dalle pie intenzioni che muovevano la ormai scomparsa compagnia romana D’Origlia-Palmi quando inscenava le vite dei santi, ossia ad una specie di commedia oratoriale in cui qualsiasi dote artistica o drammaturgica fosse soffocata da un impenetrabile odore d’incenso e sacrestia.
Tutt’altro.

La storia che si dipanava di fronte ai miei occhi, raccontata da gente del popolo nel dialetto della mia città, in un ambito spazio-temporale disarmante che solo il vecchio gioco del “teatro nel teatro” può garantire, era la storia di una bambina “contro” che, armata solo della sua fede, si è fatta voler bene da tutti.

E altrettanto candidamente ammetto che il mio cuore –a volte tacciato di cinismo- si è intenerito a pensare a quella bambina.

Come quando si dà un colpo alla prima carta e tutto il castello costruito cade improvvisamente a terra, così lo spettacolo ha avuto il pregio di farmi capire in maniera chiara e non dogmatica il perché di tutto questo ambaradan assurdo che si costruisce ogni anno intorno a una torre di cartapesta.

Perché, sarà bene ricordarlo, la “macchina” non è un appuntamento folkloristico.

Non è un evento. Non è nemmeno una prova di forza. Non importa se sia più o meno bella della precedente, se getti petali di rose, fili d’oro, se ci siano o meno i leoni, le palme, le bifore, se apra le ali o si trasformi in un razzo missile.
La macchina è, né più né meno, il racconto dell’affetto di una città per una delle sue figlie, una bambina che non aveva paura di parlare alla gente, che non se ne stava in disparte a tessere, a cucire e ad aspettare che arrivasse anche per lei il momento di sposarsi ma che scendeva in strada e raccontava il mondo come voleva che fosse, non come gli altri lo intendevano.

Che non temeva l’autorità, perché riconosceva la supremazia di un’autorità che trascendeva quella terrena. Che non aveva paura di esser presa per pazza, per strega, per eretica, perché il sogno che la muoveva era più forte di qualsiasi giudizio o pettegolezzo.

Per le cose in cui credeva, per le parole che diceva, per i miracoli che le si attribuiscono, ora la chiamiamo santa. Fosse vissuta in altri tempi, avesse avuto altri sogni, l’avremmo chiamata diversamente. Ma identico sarebbe stato l’affetto e il ricordo corale.

La valenza di Rosa, una donna medievale che non accettava le regole imposte alle donne nel medioevo, trascende le frontiere della fede per parlare a tutti.

La sua forza parla a chi ristagna in una vita che non ha scelto, e lo spinge a vivere secondo ciò in cui crede. Parla alle donne che hanno paura di esser picchiate dal proprio uomo, e le invita a non chinare il capo. A chi ha subito uno stupro, e ha paura di denunciarlo. A certi genitori che non sanno riconoscere e incoraggiare i sogni dei loro figli. Parla a chi teme di non avere un futuro. A chi vive nel terrore dell’opinione degli altri.

A chi è malato, e ha paura di non arrivare al giorno dopo.

Rosa ci insegna il coraggio. Di più, ricorda a tutti noi che basta un semplice, piccolo, coraggioso gesto per cambiare i nostri giorni e quelli di chi ci sta intorno. Ci racconta, con la sua vita vissuta più a lungo di quanto si credesse e più intensamente di quanto fosse concesso a una bambina del suo tempo, che i piccoli tunnel quotidiani che stiamo percorrendo hanno un termine, e che oltre quel termine la luce è lì che ci aspetta.

E quest’anno, grazie alla storia che mi è stata raccontata, per me sarà più semplice guardare su, in cima alla macchina, e vederci non una santa ieratica che dispensa benedizioni a chi è più piccolo di lei, ma una bambina più piccola di me che ha avuto il coraggio di vivere la propria vita senza sprecarla, che coerentemente ha vissuto secondo ciò in cui credeva e a cui i viterbesi, negli anni, non hanno mai smesso di voler bene.

E invece di “evviva Santa Rosa” mi parrà di ascoltare, per un prodigio acustico: “è viva Santa Rosa”.

Alfonso Antoniozzi

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