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L'alambicco di Antoniozzi
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Ricordate il Cifam?
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Viterbo - 11 agosto 2009 - ore 3,30

Il cantante lirico
Alfonso Antoniozzi
- Sarà colpa del caldo che imperversa e ti toglie qualsiasi voglia di riflettere, sarà che ormai ho praticamente adottato il motto “ha da passa’ ‘a nuttata” e quindi mi rifiuto recisamente di commentare l’ovvio, oppure sarà che gli anni passano e ogni tanto mi assale un filo di malinconia leggera da cui è bello farsi cullare, ma ho deciso di tediarvi ancora con delle vecchie storie.

Il fatto è che la scomparsa di uno dei “chiavari” storici di Viterbo che da sempre aveva la bottega in via Annio e che ti faceva ancora le chiavi seduto sul banchetto presso la soglia del negozio limando le sue creazioni con raspa e lentezza ataviche (ma quanta sapienza in ogni colpo di lima!) ha dato la stura ad una catena di ricordi e mi sono fermato a pensare a quante botteghe, che erano punti fermi della mia vita cittadina, siano scomparse nel tempo per dare spazio generalmente a negozi di abiti, perché quanto ci vestiamo noi viterbesi lo sa solo Dio.

Un negozio di vestiti fa bella mostra di sé dove un tempo esisteva la Galleria del Libro, in via dell’Orologio Vecchio: la padrona, burbera all’aspetto quanto geniale e con un cuore enorme nascosto a fatica da un’espressione dura, è stata la maggiore responsabile della mia formazione culturale visto che si rifiutava categoricamente di vendermi i libri che sceglievo io definendoli “cretinate” e praticamente imponendomi l’acquisto di Borges, Yourcenar, Calvino, Saramago.

Quanti clienti ho visto impallidire di fronte allo sguardo insieme di compatimento e riprovazione con cui venivano accolte le loro richieste. “Vorrei un libro sul verde”. “Ossia sui giardini?” diceva la padrona speranzosa.

“No, di colore verde perché mi serve per fare una macchia di colore in libreria”. Gelo. Oppure: “Ha l’ultimo di Bevilacqua?” “Quella roba non la tengo”. Sarebbe divertente, adesso, vederla rifiutare l’acquisto dei libri di Vespa o dell’ultimo best seller scritto da qualche disgraziato semianalfabeta uscito dal Grande Fratello.

Davanti alla Galleria, la copisteria delle Sorelle Spiti faceva fotocopie su fotocopie.

All’interno, illuminate solo dalla luce del neon, le sorelle lavoravano alacremente alle nuovissime macchine, e a me davano sempre l’impressione di essere due versioni moderne ed uguali della Felicita di Gozzano.

Pochi passi più in là c’era il paradiso di noi bambini: la cartoleria Montanari, dove entrando venivi assalito da quell’odore di gomma pane misto a carta fresca e pastelli a cera che è davvero difficile ritrovare nei grandi magazzini, in cui ogni insignificante matita è pressofusa in un inquinante packaging di plastica e carta.

Da Montanari si ordinavano i libri per la scuola elementare e si tentava di non venire intimiditi dall’occhio sempre vigile della signora che, giustamente, controllava sempre che i giovani avventori non dimostrassero segni evidenti di cleptomania e che non toccassero i libri con le dita unte di pizza fritta.

E che dire del Music Shop, che riusciva a venderti un quarantacinque giri anche se non ne sapevi il titolo ma riuscivi a canticchiargliene qualche nota?

Scendendo verso piazza delle Erbe faceva bella mostra di sé “Il Pollo d’Oro”, primissimo esperimento di rosticceria viterbese che esponeva in vetrina un rotante girarrosto da cui il grasso dei polli arrostiti sgocciolava su un letto di patatine croccanti. La domenica, a casa mia, visto che si lavorava tutti in bottega e nessuno aveva tempo di cucinare, il pollo del “Pollo d’Oro” era sinonimo assoluto di pranzo della festa.

A proposito di bottega, ci metterei anche il negozio della mamma, fondato dal nonno, in piazza Crispi: la pasticceria Cappuccini, responsabile del tasso glicemico di almeno quattro generazioni di viterbesi.

Accanto alla pasticceria c’erano un macellaio, un fioraio, le signorine della stireria, un calzolaio, e poi l’elettricista, Giovanni il tabaccaio, il bar Calisti e la pizzicheria.

Erano tempi, quelli, in cui ogni isolato era autosufficiente e costituiva un piccolo centro commerciale autonomo, non serviva certo andare fino al supermercato (che pure c’era, ricordate il Cifam?) per fare le compere, e sono dunque convinto che chiunque stia leggendo queste righe possa raccontare di altrettante botteghe scomparse.

E’ per questo che quando mi trovo a passare di fronte a negozi come la calzoleria in via della Pace o il Vapoforno di via Pasubio che resistono impavidi e immutati alla furia del tempo, non posso fare a meno di tifare silenziosamente per loro e augurargli lunghissima vita.

E’ un po’ come se dalla loro esistenza dipendesse, perdonatemi, la resistenza di quella parte bambina di me stesso che mi affanno disperatamente a tenere viva, malgrado la nottata che pure deve passare e i primi acciacchi che sono lì a ricordarmi con determinata malignità la mia età anagrafica.

Ma ora basta coi ricordi, mi accorgo di esser diventato insopportabilmente lacrimevole e, soprattutto, si è fatto tardi e devo andare a fare la spesa.
All’Ipercoop.

Alfonso Antoniozzi

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