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Il cantante lirico
Alfonso Antoniozzi
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- Leggendo il corsivo di Meroi su TusciaWeb ed essendo stato io il primo a sollevare qualche perplessità su questo sito in merito alle ronde, non posso fare a meno di sentirmi chiamato, almeno parzialmente, in causa e di mettermi alla tastiera per tentare di spiegare quale sia il mio modo di vedere.
Quello che mi preme sottolineare una volta per sempre è che io non sono né a favore della clandestinità né della malavita organizzata (che pure, rispetto al resto dell’Italia, ha se non altro il pregio di essere organizzata, e anche bene): semplicemente non riesco a capire, complice forse l’educazione ricevuta, come la repressione possa aver più successo dell’accoglienza.
E’ che, davvero, non riesco a fare a meno di mettermi nei panni di chi abbandona il proprio Paese in cerca di una vita migliore, e invece di una mano tesa trova paletti, difficoltà, pregiudizi nati dal semplice fatto che per via di qualche mela marcia si tende a considerare guasto tutto il cesto.
Ancora più semplicemente: non capisco perché ognuno non possa esser libero di andare a vivere e a lavorare nel Paese che preferisce a patto che non infranga la legge.
Non capisco, non capirò mai, il reato di “clandestinità”: a parere mio nessun uomo che abbia la ventura di camminare su questa terra dovrebbe esser mai considerato clandestino, ovunque le avventure della propria vita dovessero portarlo a metter piede.
Provengo, lo ammetto, da una generazione che sognava un mondo migliore di quello in cui mi tocca vivere.
Volevamo un mondo davvero libero. Non tanto libero di fare ciò che si vuole, il che è una falsa libertà, ma libero da preconcetti, da tabù, da proibizionismi. Libero di pensare.
Sognavamo, illusi, che ognuno potesse ricevere un’educazione tale da potersi creare un proprio profondo senso morale e civico e che si comportasse da persona civile non tanto perché ci fossero delle regole da rispettare, ma perché le regole ce le avrebbero dettate, giorno dopo giorno e a seconda del caso, il nostro cuore e la nostra anima.
Siamo cresciuti col racconto del nonno che nascondeva gli ebrei dentro casa disobbedendo alla legge, a rischio di essere deportato. Con i racconti della nonna che parlava della sorella emigrata clandestinamente in America per fare fortuna. Con le chitarre che durante la Messa ci ricordavano che la pelle di Dio “è nera, rossa, gialla, bruna, bianca perché Lui ci vede uguali davanti a sé”.
A catechismo il prete non insisteva tanto sulla morale sessuale quanto sulla vicenda del buon samaritano e sul comandamento dell’amore che impone di amare gli altri come sé stessi. Si parlava, sempre, di solidarietà. Si sottolineava, sempre, il valore assoluto dell’accoglienza.
A scuola, in uno dei miei libri delle medie, c’era una poesia che davvero non riesco a dimenticare, e ancora oggi ringrazio silenziosamente non solo chi la scrisse (viene attribuita a Brecht, ma non è vero) ma anche il professore che scelse di adottare quel libro di testo.
Eccola:
Quando sono venuti a prendere gli ebrei
Sono rimasto in silenzio perché non ero ebreo
Quando sono venuti a prendere gli omosessuali
Sono rimasto in silenzio perché non ero omosessuale
Quando sono venuti a prendere i comunisti
Sono rimasto in silenzio perché non ero comunista
Quando sono venuti a prendere gli zingari
Sono rimasto in silenzio perché non ero zingaro
Quando sono venuti a prendere me,
non c'era più nessuno che potesse parlare per difendermi.
Almeno trent'anni sono passati da quando lessi per la prima volta questa poesia, e non c’è giorno in cui non mi accorga che il sogno che sognavamo era evidentemente destinato a rimanere tale.
E ora, per dirla con Gaber, da una parte c’è l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra un gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.
Alfonso Antoniozzi
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