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Processo Gradoli - L'arringa dell'avvocato dell'imputata, Pierfrancesco Bruno
"Nessuna certezza che Ala sia colpevole"
di Stefania Moretti
Viterbo - 5 maggio 2011 - ore 2,45


Madre e figlia scomparse
Dossier Gradoli
L'avvocato Pierfrancesco Bruno
L'avvocato Mario Rosati
Paolo Esposito
Ala Ceoban
L'avvocato Enrico Valentini
Il pm Renzo Petroselli
Gli avvocati di parte civile Claudia Polacchi e Luigi Sini
- Nessuna certezza.
Sulla morte di Elena e Tania. Sulla sparizione dei corpi. Sul presunto duplice omicidio. Ma soprattutto su chi lo abbia commesso e perché.

E' un lunghissimo elenco di dubbi l'arringa di Pierfrancesco Bruno. Il difensore dell'imputata Ala Ceoban confuta per oltre sette ore le tesi del pm Renzo Petroselli. Argomentazioni povere, a suo dire. “Una ridda di ricostruzioni di fantasia”.

Nemmeno l'accusa avrebbe avuto il coraggio di negarlo. “Persino il pm, nella sua requisitoria, ha ammesso che non sa cosa sia successo quel 30 maggio 2009, nella villetta di via Cannicelle. L'unica cosa che può fare, è azzardare ipotesi sui fatti e sulla loro cronologia: prima lo strangolamento di Elena, poi l'uccisione di Tania. Ma a che ora? E dove? In casa o fuori?”.

Soprattutto su questo punto, per Bruno, le idee dell'accusa sono tutt'altro che chiare.

Quella cucina che durante le indagini era stata indicata come la sicura scena del delitto, ora, di colpo, non lo è più. “Petroselli prima ci si rinchiudeva come un topo nel formaggio. Ora vuole scappare”. Perché, perizie alla mano, “il sangue trovato è troppo poco per giustificare una mattanza”.

E allora, l'accusa passa al piano B. “Non più l'accoltellamento di Tatiana. Non più i corpi fatti a pezzi in cucina. Qui, secondo la nuova versione del pm, Tania può aver ricevuto al massimo una botta in testa. Ma l'omicidio vero è proprio è avvenuto fuori”.

Un salvataggio in calcio d'angolo che, per Bruno, non basta a coprire i buchi nelle indagini.

Le piste che la procura non ha neppure sfiorato restano lì. Intatte e imbattute.

Nessuno si è mai sognato di cercare il vero padre di Elena. Né di valutare la possibilità che Tatiana possa non essere tornata a Gradoli con l'autobus quel 30 maggio, dato che il suo telefono aggancia la lontanissima cella di Capodimonte, dove il pullmann Viterbo-Gradoli non passa.

Nessuno ha indagato sul fantomatico spasimante di Tatiana. Quel maresciallo divorziato e benestante, con il quale la donna, secondo alcuni testimoni, avrebbe voluto “sistemarsi”.

Né tantomeno è stato dato peso alla deposizione del fioraio, sulla quale, invece, l'avvocato di Esposito, Mario Rosati, imposta tutta la sua arringa.

“L'uomo – afferma l'avvocato, prendendo la parola prima di Bruno - dice di aver incontrato Esposito in un giorno prefestivo, di avergli chiesto di alcune antenne che Esposito doveva montare e che sarebbero arrivate il lunedì successivo, e di averlo risentito per telefono”.

Il fioraio non ricorda di preciso i giorni. Li confonde. I tabulati, però, parlano chiaro: le uniche telefonate tra lui ed Esposito sono di martedì 2 giugno. Ed ecco che per Rosati tutto quadra: “le antenne arrivano lunedì primo, e l'incontro avviene sabato 30 maggio. Prefestivo”. Come a dire che Esposito, quel pomeriggio, in casa, non c'era.

Ma di ricostruzioni alternative al delitto, la procura non vuole neppure sentir parlare.

Il sequestro di persona è escluso. E l'ipotesi del generico incidente capitato a madre e figlia - “raro ma plausibile, come dimostra il caso dei fratellini di Gravina di Puglia” - viene scartata all'istante.

Resta l'omicidio. “Ma perché sia vero, non basta che lo dica l'accusa. E comunque, ammesso che ci sia stato, chi potrebbe giurare che a commetterlo siano stati Paolo e Ala?”.

In aula, si è cercato di far passare i due imputati per due abili assassini, in grado di progettare il delitto perfetto. “Eppure tanto furbi non lo sono stati – controbatte Bruno -. Non hanno fatto sparire i passaporti di Elena e Tania. Non hanno mai smesso di inviarsi centinaia di messaggi al giorno. Esposito ha addirittura portato ai carabinieri la telecamera che Tania aveva comprato a Viterbo la mattina del 30 maggio, lasciata, poi, sul tavolo della cucina”.

Un autogol clamoroso, dice Bruno. Perché la telecamera è la prova che Tania era tornata nella villetta nel pomeriggio. E, in caso di omicidio, era il primo indizio da distruggere.

“La verità – conclude l'avvocato - è che nessuno sa cosa sia successo a queste due donne. Non lo abbiamo mai saputo e probabilmente non lo sapremo mai. Nessuna ipotesi trova riscontri così forti da inchiodare Paolo e Ala. Per lei chiedo, quindi, l'assoluzione con la formula più ampia, perché il fatto non sussiste”.


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