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Viterbo - Martedì 8 settembre
"Porgete orecchio, egregi miei uditori..."
Viterbo - 7 settembre 2009 - ore 18,00

- Con il contributo e il patrocinio della Regione Lazio, il Sistema Museale del Lago di Bolsena presenta
“PORGETE ORECCHIO, EGREGI MIEI UDITORI...”

Viaggio nel mondo della poesia popolare improvvisata in ottava rima racconto teatrale a cura di Antonello Ricci, Alfonso Prota e Olindo Cicchetti in collaborazione con Società Cooperativa STAF

Ischia di Castro, martedì 8 settembre (21.00)

L'appuntamento con la performance di Ricci & co. è nella piazzetta di Ortirosa (giùgiù in fondo al di-dentro del pittoresco centro storico di Ischia

Soc. Coop STAF arl – Via Cairoli 2, Viterbo – Tel/Fax 0761/347625 – www.staf-vt.it / info.coop@staf-vt.it
INGRESSO LIBERO

Lo spettacolo sarà dedicato a Delo Alessandrini (classe 1914), ischiano schietto, poeta a braccio di lungo corso

Il mini tour di “Porgete orecchio” si chiuderà in bellezza a piazza del Comune a Piansano, sabato 3 ottobre, ore 18.00 (con ricotta-live di Tonino Brizi e relativa degustazione... non mancate!)


PER CHI VOLESSE SAPERNE DI PIU'...

[agosto 2009, ritratto di Delo Alessandrini, ischiano schietto, poeta a braccio]

Mi guarda, sorride. Non parla. Chi glielo avesse detto trent'anni fa, quando ci siamo conosciuti… uno spettacolo tutto per lui: sulla sua vita e i suoi versi di "piccolo poeta".

Non vorrebbe farsi vedere, ma un po' di commozione gli traversa quel viso tutto etrusco, schietto e virtuoso, da contadino di queste parti. E quelle mani antiche, lente e solenni, scavate dalla vita come l'acqua fa, da sempre, col tufo della nostra terra asprigna. Non sa tenerle ferme.

Delo è nato il 13 dicembre 1914. Ha quasi novantacinque anni. Li porta sulle spalle con grande pazienza. È invecchiato bene. Serenamente. Non ci vedevamo da qualche anno ed è un piacere ritrovarlo lucido, vitale, pungente. Come se il tempo non fosse passato. Sarà perché intorno a questo tavolo di cucina e all'immancabile caffè si affollano quasi tutti i suoi cari: Santina, la moglie, appena più giovane di lui, la figlia Giuseppina e il genero Nando, carabiniere in pensione col pallino dell'orto e della vigna. O sarà il "furore" poetico che accompagna Delo da quando era bambino. E una memoria ancora oggi chiara, profonda, impressionante.

Sì, perché Delo, pur con la sua terza elementare, discende da una schiatta illustre e dimenticata: quella dei poeti "a braccio". Così sono detti gl'improvvisatori popolari, contadini e pastori dell'Italia Centrale, artisti del canto estemporaneo in ottava rima. Campioni ormai in via d'estinzione, ma un tempo numerosi e richiesti, per campagne e cittadine, dalla Lucchesìa agli altipiani d'Abruzzo alle maremme tosco-laziali. Suoi antenati furono, per dire, la Divizia contadina dei Bagni di Lucca, alla quale Montaigne accenna nel suo Viaggio in Italia; o il Giandomenico Pèri d'Arcidosso, improvvisatore bifolco alla corte dei Medici agl'inizi del Seicento; o ancora la Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, nel Pistoiese, il cui talento affascinò due generazioni di romantici, da Niccolò Tommaseo a Renato Fucini.

Delo rappresenta la memoria vivente d'una tradizione formidabile. Unica, per durata e resistenza, nella storia della nostra letteratura. Soprattutto i grandi poemi cavallereschi, come l'Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata, che attraverso il Big Bang della stampa portarono la poesia a latitudini geografiche e sociali quasi impensabili per il contesto culturale italiano: dalle piazze dei liberi comuni medioevali e dalle corti rinascimentali fin sulle rapazzole di anonimi pastori transumanti, nelle veglie dei poderi, nelle fiere e nelle feste di paese. E proprio nelle opere maggiori del nostro Cinquecento gl'improvvisatori popolari, autodidatti rozzamente alfabetizzati, hanno scoperto un po' di quel che Don Chisciotte cercava nei suoi libri di Cavalleria: il tenero, anacronistico rimpianto per un'Età dell'Oro, un'Arcadia Felice ormai scomparsa. Tutta poesia, niente classi sociali.

E dire che Delo aveva quattordici anni quando "salpò" la prima volta con una compagnia di braccianti per le bassure di Montalto, e quindi ha fatto in tempo a conoscere, e subire, l'ordine antico del latifondo maremmano, le sue gerarchie inflessibili, la sua fame. Quel mondo ben sintetizzato da Silone in Fontamara: prima il principe Torlonia, dio in terra. Poi i servi del principe. Poi i cani dei servi del principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi i cafoni. In maremma Delo avrebbe lavorato tutta la vita fino al 1972, anno della pensione. Raccogliendo scarcia nel padule della Pescia, tirando su i poderi della Riforma. In mezzo, una guerra sciagurata e la deportazione in Germania. I lavori forzati, non troppo diversi dall'amarezza e dalla schiavitù lasciate a casa.

Nell'ottava rima Delo ha riconosciuto la possibilità di dare un senso a tali esperienze, di curarne le piaghe. L'ottava: cantata a squarciagola da giovane per osterie e fraschette, consegnata poi - con la maturità - alla meditazione della pagina scritta.

Ecco allora l'idea: attraverso la vita e le opere di Delo, raccontare la tradizione dell'ottava popolare e dell'improvvisazione poetica a Ischia e nell'Alto Lazio. Ma anche: rievocare un secolo di lotte per la terra in una comunità della maremma laziale, come esse filtrarono nei semplici versi dei suoi modesti cantori.
Delo approva. Dice di sì, che va bene. Ma è un cenno del capo. Poi soggiunge: quello che fai è ben fatto. È solo per rassicurarmi. Sa che ho bisogno di questa benedizione.

Possiamo andare in scena.

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