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L'opinione di un candido democristiano
Fioroni e Sposetti tra movimento e partito
di Renzo Trappolini
Viterbo - 21 settembre 2009 - ore 5,20

Renzo Trappolini
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- Quando i capi comunisti arrivarono a Palazzo Chigi nel 1996, Fidel Castro il Lider Maximo (con la blasonata x e non con le ss) credette giunto il momento di venire in Italia dove si teneva una Conferenza della FAO, perché lì, pensava, si sarebbe davvero trovato tra compagni.

C’era infatti Giorgio Napolitano al Viminale, la Turco e la Finocchiaro in ministeri senza portafoglio, Bersani all’industria e addirittura il fratello di Enrico Berlinguer all’istruzione. Racconta un gustoso corsivo di Repubblica dell’epoca che Fidel arrivasse a Roma tutto speranzoso ma, seppur consapevole da ex allievo dei Gesuiti che con il Vaticano vicino qualche concessione era d’obbligo, non si aspettasse dal pio presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, un fervorino sulla Madonna.

Corse dunque a Palazzo Chigi dove però capo del governo era il cattolico di scuola democristiana Romano Prodi e parlò con il vice, Walter Veltroni in direzione comunista quasi dalla nascita. Il compagno Walter sembra però che preferì raccontargli del cinema americano e perfino di Kennedy, quello che lo voleva attaccare con le armi a Cuba.

Di andare a Botteghe Oscure, pensò, neanche a parlarne dopo aver saputo che gli inquilini avevano cambiato nome, da Pci a Pds.

Lo prese la malinconia che scomparve quando il giorno dopo potè finalmente parlare da comunista con il papa polacco che aveva sì contribuito a far cadere il muro ma era sempre lì pronto ad attaccare i capitalisti.

Sulla via del ritorno riflettè che forse era vero che in Italia non c’erano mai stati i comunisti e quelli che nelle piazze cantavano Bandiera Rossa, in parlamento, fin dalla Costituente, flirtavano con gli odiati democristiani soprattutto quando c’era da accordarsi sulle materie finanziarie, ma anche in quelle dell’istruzione, degli aiuti alla Fiat, perfino dell’elezione dei capi dello Stato e poco mancò che anche per il divorzio le donne comuniste facessero fronte comune con quelle d’azione cattolica.

D’altronde, le regole delle Camere le avevano in sostanza scritte insieme e se i comunisti avessero voluto fare la rivoluzione sarebbe bastata una parola di Palmiro Togliatti dal letto della clinica in cui fu ricoverato dopo che nel 1948 gli spararono. Invece, il popolo non andò alla riscossa e acclamò Gino Bartali che aveva vinto il Tour de France.

Sembrano passati secoli e ormai c’è solo Silvio Berlusconi ad evocare in Italia il pericolo comunista. Un paradosso certamente ma non del tutto se si considera il peso delle matrici culturali di chi fa politica, con riferimento, in particolare alla supremazia che nella visione del Pci aveva il “Partito”, anche sopra lo Stato.

Ed è proprio sul concetto di partito che sia a destra che a sinistra si dibatte oggi, forse in vista del passaggio a una terza repubblica.

Franceschini e Bersani, con Marino, lottano per la guida del Pd. Sul fronte opposto il cofondatore del PdL Gianfranco Fini contesta deficit di democrazia interna al partito di maggioranza.

Ma si tratta di qualcosa di più di una lotta tra persone.

Sono due concezioni dei modi della partecipazione politica che si fronteggiano dopo la fine del partito dei numeri e dell’organizzazione, da quando non ci sono più le sezioni aperte ai soli iscritti da accettare dopo accurate selezioni e i comitati territoriali in cui si formava la classe politica, scelta col voto degli iscritti medesimi per essere proposta agli elettori da governare. Un sistema che alla lunga ha finito per mangiare se stesso attraverso lotte interne spregiudicate tra iniziati.

Proprio in questi giorni si va svolgendola ricerca di forme nuove tra i due modelli, quello del partito leggero, lo chiamerebbero i veltroniani o del movimento d’opinione che si organizza solo nel momento elettorale, inventato da Berlusconi ed al quale si oppone Gianfranco Fini, non dimentico del valore del collegamento al territorio e della forza disciplinata dei militanti propria di An ieri e del Msi l’altroieri.

Così come Bersani e gli ex comunisti non possono cancellare, pur con i difetti riconosciuti, tutta la cultura del partito-stato, la presenza capillare nella società attraverso le cellule, la scuola di formazione delle Frattocchie, le famiglie guida nel partito ed il volontariato aziendale degli eroici venditori domenicali de l’Unità ai crocicchi e porta a porta.

Forse anche per questa impostazione Ugo Sposetti, già segretario provinciale del Pci e Alessandro Mazzoli di solida tradizione comunista impiantata da Frosinone a Viterbo, si ritrovano distinti da Franceschini e da Fioroni, una generazione di democristiani formati prima che in sezione nei movimenti degli studenti cattolici, mentre cresceva Comunione e Liberazione e si sperimentava la democrazia diretta delle elezioni scolastiche.

Il dibattito in corso all’interno degli schieramenti e indipendentemente dall’odore – comunque stantio – dei soldi spesi per tappezzare le città di manifesti da far leggere anche ai non PD, sorregge la ricerca di un equilibrio tra il partito degli iscritti e l’apertura alla società civile, ai simpatizzanti, agli elettori da far partecipare alle scelte per recuperarne consenso e fiducia.

Con un rischio: quello di rendere meno interessante l’iscrizione al partito e la vivacità interna, delegata ad una oligarchia, alla casta (come avviene, ad esempio e ahimè con la scelta dei candidati alle cariche pubbliche).

Forse così si spiega la bassa affluenza ai congressi locali del Pd. E il discorso vale per tutti a sinistra, a destra, come al centro.

Renzo Trappolini

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