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Domenico Cacopardo |
- L’accademia di vicolo Baciadonne è l’ultimo romanzo di Domenico Cacopardo. Un giallo interamente ambientato a Viterbo, che, snodandosi intorno alla storia di un duplice omicidio, racconta anche un po’ della vita della città.
Lei ha vissuto e studiato a Viterbo e ha sposato una viterbese: quali ricordi conserva di quella sua esperienza?
"Viterbo del dopoguerra - ricorda Cacopardo - era una Viterbo largamente distrutta dai bombardamenti, alle prese con immensi problemi di ricostruzione, tuttavia solida, della solidità tipica dei contesti a economia agraria.
A questo si aggiunga che Viterbo era una città clericale, popolata da chiese e conventi, in cui si votava democristiano e democristiano era il sistema di potere. Ciò non impedì che si accendessero dei fuochi non conformisti e che intorno a essi danzassero alcuni, una minoranza, che sperava nella liberazione.
Una speranza che animò Giggi Petroselli e Ennio Canettieri e poi altri come Romano Scriboni e io stesso. Ci avvicinammo tutti al Pci che ci fu vicino, mettendoci a disposizione una visione già matura dei problemi della democrazia nel nostro paese e, cosa vitale, un ciclostyle, che ci servì per stampare il nostro giornale, Tuscia goliardica.
Un giornale che ci portò in camera di sicurezza per qualche ora, giacché fummo accusati di stampa non autorizzata. Il luogo principale della fronda fu il liceo classico che allora si chiamava Umberto I ed era diretto da un personaggio entrato nel mito, Nello Cocco, dal viso e dal portamento risorgimentale, dall'atteggiamento severo e liberale.
C'era una passione inusitata nel riunirci nell'aula magna della scuola, anche di sabato, per discutere del giansenismo di Manzoni, della filosofia della prassi, degli ultimi orientamenti estetici alla luce del pensiero di Georgy Lukacs con l'indimenticabile apporto del liberale professor Gionfra, del cattolico Pesaresi e dello stesso Ciocchetti, vittima poi di una vicenda tra la pochade e il dramma privato. C'era un certo coraggio - o incoscienza, se si vuole- nel contromanifestare quando i fascisti scendevano in piazza per Trieste italiana o quando Pella mobilitò le truppe sul confine jugoslavo. C'era voglia di partecipare quando noi, i ragazzi, ci impegnammo nella campagna elettorale del '53, quella contro la legge truffa di Mario Scelba.
Certo speranze e impegno subirono strada facendo mutazioni anche radicali e la necessità di confrontarsi con il potere condusse spesso alcuni a percorrere strade errate e controproducenti. E, in fondo, la situazione attuale della città dimostra come la crescita civile non ha prodotto quella crescita politica che la Resistenza e la Costituzione repubblicana intendevano postulare.
Resta il fatto di una stagione senza confronti, nella quale si fonda la mia formazione come quella di tanti altri. Conservo ancora un articolo di fondo scritto da Palmiro Togliatti su L'Unità a proposito del dovere di studiare: e la serietà degli studi di quei tempi era considerata un'occasione di crescita, di formazione in funzione rivoluzionaria o, se si vuole, alternativa al sistema di governo democristiano".
E quali legami mantiene con la città?
"Ho con la città legami familiari e amici antichi. Ci vengo però molto saltuariamente, soprattutto per incontrare Romano Scriboni, che è venuto da qualche anno a vivere a Viterbo. Un ragionar loico e maturo, sin da quando era ragazzo e passavamo il tempo libero giocando a scacchi. Ora un aiuto importante e tutt'altro che corrivo: legge le mie cose mano a mano che le scrivo e mi dà giudizi utili, preziosi. Ecco, a settant'anni suonati, il nostro rapporto è fondamentalmente tal quale era quando nell'intervallo fumavamo una Nazionale nei gabinetti del liceo".
La scelta di ambientare il suo ultimo romanzo a Viterbo ha un valore biografico o "scenografico"?
"Una scelta che reca entrambi gli elementi. Viterbo, nonostante il cosiddetto sviluppo urbano e qualche scempio, mantiene alcuni fondamentali valori architettonici e urbanistici. Il fascino delle sue stradine, dei suoi quartieri permane e, anzi, s'è approfondito, visto il disastro nazionale. Del resto non sono il primo a scoprirlo. Ricordo Orson Welles girare nel tempietto sotto le poste centrali. Ricordo Federico Fellini girare I vitelloni: in tanti seguimmo le varie riprese e alcuni di noi furono 'presi' come comparse e poterono avvicinare Alberto Sordi, Leopoldo Trieste e gli altri attori".
Nella storia ricorrono figure passate e presenti ben conosciute in città. Come mai questa scelta di verosimiglianza così accentuata?
"Ho sempre scritto i miei romanzi così, utilizzando nello sfondo personaggi e ambienti veri e reali. L'istoria è invece completamente inventata ed è sbagliato il gioco delle identificazioni. Non condurrà nessuno da nessuna parte. Del resto la letteratura è vera finzione o finta verità. L'importante sono le sensazioni, le idee che lo scrittore è in grado di suscitare".
Viterbo come archetipo della piccola città di provincia, un po' rinchiusa su sé stessa?
"Viterbo come paradigma universale. Nel cosmo limitato di una città come Viterbo appaiono e scompaiono situazione e personaggi che possono assumere caratteri universali. Non a caso, Leonardo Sciascia con l'ultimo suo romanzo Una storia semplice, quello andato in libreria il 21 novembre del 1989, il giorno della sua morte, racconta un contesto limitato e descrive una realtà universale. Senza aspirare a paragoni impropri, Viterbo mi ha aiutato a mettere in scena una vicenda dai contorni nazionali. Penso che la letteratura costituisca una sorta di metastoria della vita nazionale: gli storici interpretano la storia; i romanzieri la mettono in scena".
Lei, da studente, ha conosciuto la Viterbo di 50 anni fa. Come giudica la città di oggi?
"Non la conosco abbastanza per giudicarla in senso appropriato. La sensazione è che, come tanta parte d'Italia, sia una città senz'anima, più portata a perseguire il valore del denaro che quello della crescita sostanziale, cioè civile".
Consigliere di Stato, capo di gabinetto di ministri e presidenti del Senato, oggi romanziere: qual è il filo che lega queste sue esperienze?
"Cosa leghi le mie esperienze non lo so. Quello che per me è certo che ho seguito un percorso che mi ha portato a vivere in prima persona le contraddizioni del mio tempo e della mia generazione.
Sarò felice se, a questo punto, riuscirò, con i miei romanzi, non tanto a raccontare quelle contraddizioni, a cui probabilmente nessuno è interessato, ma quanto a far rivivere nei lettori ciò che è accaduto e accade quotidianamente nel nostro paese, e che non prende rilievo né politico né giudiziario, pur costituendo una fonte permanente di degrado morale e politico. Debbo però precisare che lo scopo principale dello scrivere è e non può che essere intrattenere. Piacevolmente se possibile, altrimenti vale l'art. 1 dello statuto del lettore: non leggere il libro che non ti piace".
Per chi volesse saperne di più: www.cacopardo.it.