Riceviamo e pubblichiamo
- Per la Viterbese il campionato è finito. Alleluia. Abbiamo dovuto attraversare il solito periglioso guado. Una lunga e dolorosa stagione calcistica. Dominata e stravolta dall’abituale dietrologia che, da molti anni a questa parte, è la nostra scomoda compagna di viaggio. Si è parlato poco e male di calcio giocato. Si è discusso spesso e a sproposito di calcio a tavolino. Si è disputata una sorta di torneo di subbuteo non agonistico ma amministrativo.
Troppa poca gente e troppa poca stampa si è schierata dalla parte giusta.
Si è limitata a osservare e registrare ciò che stava accadendo. Senza rendersi conto (possibile?) che deprecabili eventi a cascata stavano mettendo a repentaglio la sopravvivenza della società. Senza sentire il bisogno di associarsi allo sdegno. Così come l’etica vorrebbe che fosse quando si vede minacciato uno dei patrimoni della città in cui si vive. Si è tollerata un’invasione barbarica non dissimile da tante altre che l’hanno preceduta. Non si è capita o non si è voluto capire la lezione del recente fallimento. Non c’è stato il coraggio di difendere la propria identità. Quella che si riflette anche sulle maglie che portano i colori di Viterbo.
Per mesi ci si è chiesti chi e perché abbia catapultato Pecorelli a Viterbo. Un patron sprovvisto dei mezzi economici necessari per sostenere un campionato professionistico di C2. E però pronto a strombazzare nomi altisonanti, ad abbandonarsi a promesse che sapeva di non essere in grado di mantenere, a dire che era tutto a posto e che avrebbe sistemato lui le cose.
Domande retoriche. Tutti sanno chi l’ha fatto venire. E nessuno è tanto sprovveduto da non sapere che il calcio ormai è ridotto a questo sconcio. E che le invasioni barbariche sono all’ordine del giorno sotto tutte le latitudini. Specie quando chi può non alza le barricate per impedire che ciò accada. E non è certo il caso dell’apatica Viterbo.
Ora si apre un nuovo capitolo dello stallo dietrologico. Perché, con la società che ha un piede nella fossa, Pecorelli non si decide ad andare via? Vuol fare come Sansone che morì con tutti i filistei? Non crediamo sia tanto sciocco. E però non abbiamo le capacità divinatorie per interpretare cosa gli passi per la testa.
E sinceramente nemmeno ci interessa più, arrivati a questo punto. Sull’orlo del baratro verso cui è stata spinta la Viterbese, vanno cercate soluzioni. Basta perdersi dietro a inutili interrogativi. Le scadenze federali incalzano. Non resta che poco tempo.
La soluzione del problema, a nostro avviso, sta nell’assemblea dei soci indetta per il 16 maggio. C’è una settimana di tempo per arrivare a questa data con una soluzione in mano, chiara e forte, da imporre a chi proprio non se ne vuole andare. Una soluzione che lo costringa ad andarsene, attraverso una rigorosa applicazione delle norme societarie tratte dal codice civile.
Certo, per arrivare a questo, è necessario che ciascuno faccia la sua parte.
Chi si deve schierare, si schieri. Chi si deve adoperare per trovare la via d’uscita (il collegio sindacale?), si adoperi. Chi ha la volontà e la possibilità economica per subentrare, esca dall’ombra. Chi a Viterbo ha sufficienti potenzialità per sostenere la squadra e salvarla dal secondo fallimento in due anni, si metta una mano sulla coscienza. Se ciascuno farà ciò che gli compete, nessun obiettivo sarà precluso.
Sergio Mutolo